di Stefano Pezzola
Il Tribunale del lavoro de L’Aquila a firma del giudice Giulio Cruciani affonda il colpo sulla discriminazione e sulla illegittimità della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione comminate in forza della “lettura superficiale” degli artt. 4, 4-bis, 4-ter, 4-quater e 4-quinquies dl. 44/21, che hanno imposto l’obbligo di vaccinazione a certe categorie di lavoratori e ai lavoratori dai 50 anni in su.
Al seguente link è possibile scaricare la sentenza integrale in formato pdf (TRIB-LAV-AQUILA-inefficacia).
Il Giudice ha premesso l’illegittimità delle sospensioni dal lavoro comminate in maniera automatica, poiché la sospensione dal lavoro è normativamente l’effetto immediato della ricorrenza di alcuni presupposti che “devono essere accertati in un procedimento che culmina con un atto e questo ovviamente deve essere comunicato al lavoratore che così potrà conoscere il motivo della sospensione, verificare se l’accertamento è esatto e in caso ritenga impugnarlo”.
Invitando a leggere con attenzione la sentenza, ritengo opportuno riportare alcuni passi sostanziali.
“Dunque, quantunque la sospensione sia l’effetto immediato del venire in essere di alcuni presupposti, questi devono essere accertati in un procedimento che culmina con un atto e questo ovviamente deve essere comunicato al lavoratore che così potrà conoscere il motivo della sospensione, verificare se l’accertamento è esatto e in caso ritenga impugnarlo.
Sotto tale profilo, dunque, la sospensione della lavoratrice è palesemente illegittima per difetto della relativa procedura: un atto ci deve essere e può anche avere effetti retroattivi, ma deve dare conto dell’esistenza dei presupposti che giustificano tali effetti e deve essere comunicato all’interessato affinchè conosca il motivo della sospensione” scrive il giudice Cruciani.
E nel merito aggiunge che “ad una valutazione costituzionalmente orientata (ed anche letterale) non vi è alcuna norma di legge – né potrebbe mai esservi anche per lo sbarramento costituzionale del divieto di discriminazione art. 3 Cost. – che imponga un obbligo vaccinale anti Sars-CoV-2 per prestare lavoro per determinate categorie di lavoratori o per lavoratori con una determinata fascia di età, ma solamente l’imposizione di un tale obbligo se e nei limiti in cui sia strumento di prevenzione dal contagio. Invero, si consideri che la Stato italiano si fonda sul lavoro (art. 1 Cost.) e su questo si fonda non solo la dignità professionale ma anche la dignità personale dell’essere umano (limite invalicabile all’obbligatorietà del trattamento sanitario, quale il vaccino, di cui all’art. 32 Cost.) che vuole mantenersi con le proprie forze. Il reddito da lavoro costituisce per lo più il reddito di sussistenza, senza di esso si scivola nel degrado e nella dipendenza“.
Affermato il principio della legalità formale e amministrativa dei provvedimenti sanzionatori, il giudice entra nel merito della questione e riconosce che “la comune esperienza di tutti (personale, familiare, della cerchia di conoscenti) conferma il dato evidente che, allo stato, chi non si è vaccinato può infettarsi e infettare come può infettarsi e infettare chi ha ricevuto una dose, due dosi etc.”.
In base alle evidenze scientifiche e alla comune esperienza questo dato – la contagiosità dei vaccinati come dei non vaccinati – “assurge a fatto notorio ai sensi dell’art. 115, c.p.c.” e dunque l’inefficacia del vaccino anti covid-19 non dovrà essere più provata, ma dovrà essere considerata dimostrata.
E siccome la ragione espressa per la quale si impone al lavoratore di vaccinarsi contro la SARS COV 2 è quella di prevenire l’infezione dalla malattia nei luoghi di lavoro, il fatto che il lavoratore vaccinato possa contagiare quanto il non vaccinato dovrebbe condurre alla conclusione logica che entrambi “non devono essere presenti nei luoghi di lavoro”.
Dunque l’esclusione dai luoghi di lavoro delle persone non vaccinate, a parità di condizioni personali e sanitarie, costituisce un atto discriminatorio bello e buono.
Si afferma in altre parole il principio che le misure di allontanamento, demansionamento, dequalificanti o segreganti adottate ancora oggi nei confronti dei lavoratori non vaccinati reintegrati, sono e saranno da considerarsi discriminatorie e mobbizzanti.