Abraham Verghese dopo il diploma allo Iowa Writers’ Workshop, ha scritto My Own Country, finalista al NBC Award, e The Tennis Partner, un New York Times Notable Book.
Verghese ha ricevuto la National Humanities Medal, cinque lauree honoris causa ed è membro della National Academy of Medicine e dell’American Academy of Arts & Sciences.
Travancore, Costa di Malabar.
Punta meridionale dell’India.
La terra è modellata dall’acqua e la sua gente è unita da una lingua comune: il Malayalam.
Così entriamo nel mondo del suo romanzo Il Patto dell’acqua edito da Neri Pozza.
L’anno è il 1900 e una ragazza di dodici anni prende una barca per sposarsi con un vedovo di quaranta anni.
La ragazzina cerca di prendere sonno tra le braccia di sua madre.
Colui che diventerà suo marito, il nuovo padrone della sua vita, è vedovo, con un figlio ancora bambino.
La piccola sposa va incontro al suo futuro cosí come è stato deciso da altri, come hanno fatto sua madre e la madre di sua madre prima di lei.
“Il giorno piú brutto nella vita di una ragazza è il giorno del matrimonio. Poi, se Dio vuole, le cose migliorano” le viene detto.
Il vedovo è un buon partito, come loro è parte di quell’antichissima comunità di cristiani convertiti da san Tommaso diciotto secoli prima, e per qualche strano motivo accetta una moglie senza una rupia di dote, anche se si mormora che la sua stirpe sia afflitta da una strana maledizione: in ogni generazione almeno una persona muore affogata.
E in quello che oggi si chiama Kerala l’acqua è ovunque, plasma la terra in una trina di laghi e lagune, accompagna col suo canto sommesso le esistenze, si nutre dei monsoni, collega tutto nel tempo e nello spazio.
Parallelamente, c’è un’altra storia, quella di Digby Kilgour, un giovane medico scozzese che viaggia da Glasgow a Madras per unirsi al servizio medico indiano durante il periodo coloniale.
Le due storie si incastrano soltanto verso la fine, “come un fiume che collega le persone a monte con quelle sottostanti“.
Nel romanzo sono invece intrecciati gli eventi storici: soldati indiani combattono per gli inglesi nelle guerre mondiali; L’India ottiene l’indipendenza; il giornale poi la radio poi arriva un ufficio postale; si forma lo stato del Kerala; i comunisti vincono le elezioni; la rivoluzione dilaga.
Verghese è nato in Etiopia da genitori indiani del Kerala, e continua a praticare la professione di medico e docente di medicina in America.
Scrive con la fantasia e la generosità di un grande scrittore ed il rigore del medico.
Si è tentati a guardarlo come un uomo con molteplici carriere ma tutto il suo lavoro è ancorato a una coerente, profonda architettura morale dello spirito.
Ha sofferto quando era più giovane – esperienze che ha raccontato nei suoi primi romanzi e saggi – per poi far emergere un animo romantico, determinato, gentile e compassionevole in età adulta.
In un’epoca in cui la serietà morale sembra non avere valore, Verghese prende sul serio la benevolenza e la empatia, in una ricerca del meglio di sé.
Il suo nuovo romanzo si concentra quasi interamente sulle brave persone – a cui accadono molte cose terribili – e data la complessità degli esseri umani, l’eccesso di grazia a volte può apparire irrealistico e persino pretenzioso, come se lo scrittore stesse tendendo a stati dell’anima che gli esseri umani comuni non possono raggiungere.
Non si tratta però di non è un romanzo dotato di sottili intuizioni psicologiche.
È semplicemente un romanzo grandioso, spettacolare, ampio e assolutamente coinvolgente.
Verghese ha un dono per la suspense ed il suo facile rapporto con il linguaggio trascina il lettore attraverso una meravigliosa narrazione così che difficilmente ti rendi conto che stai divorando pagina su pagina.
Il libro come detto inizia nel 1900 e termina nel 1977, quando la nipote medico di giovane sposa arriva a una scoperta scioccante.
La famiglia è composta da cristiani indiani, discendenti di coloro che furono convertiti per primi da San Tommaso nel I secolo d.C.
Conducono vite difficili ma gioiose e gradualmente si fanno strada nel mondo nonostante le sfide dall’aspetto impossibile.
I personaggi hanno un temperamento quasi biblico – gentili, coscienziosi, a volte mostrano un risveglio che sembra in anticipo sui tempi.
I nefasti si redimono, i corrotti vengono puniti immancabilmente, il perdono viene implorato e concesso, il dolore superato e le fratture riconciliate in pochi capitoli.
Un libro di straordinaria potenza che custodisce tutti gli eventi preziosi dell’esperienza umana.
Una prosa sorretta da una profonda e coerente architettura morale dell’animo umano.
Un romanzo davvero spettacolare e coinvolgente.
Verghese racconta la saga di una famiglia attraverso un secolo di cambiamenti epocali, senza mai dimenticare che l’amore e la gentilezza d’animo possono vincere sulla violenza.
Impariamo molte cose anche sull’India, alcune delle quali forse già conoscevamo: il sistema delle caste, gli sconvolgimenti sociali del ventesimo secolo, una varietà di cibi, informazioni sull’architettura, l’agricoltura e la struttura familiare, il posto della fede nella società.
Verghese ci ricorda a piu’ riprese che la bruttezza non è più vera della bellezza, né la crudeltà più della gentilezza.
A volte, gli insulti del mondo sono semplici: un bambino che muore, un incendio, una malattia, un’inondazione.
C’è una verità pungente al di fuori della malizia.
Una precisazione.
A mio parere il libro deve essere letto non come rappresentazione realistica, ma come una bellissima favola di 736 pagine.
Una favola che mescola progresso scientifico, spiritualità e la storia di un’antica famiglia cristiana in India.
Quando sono arrivato alla fine di un libro ed ho alzato lo sguardo, sono passati soltanto cinque giorni.
Ma in quel breve periodo ho vissuto attraverso tre generazioni e imparato molto sul mondo e su me stesso.
Ho alzato lo sguardo ed ho ripreso fiato.